I nostri file possono aver registrato colori che le stampanti non sono in grado di riprodurre. Vediamo insieme come gestirli al meglio.
Negli articoli precedenti abbiamo definito come ogni periferica coinvolta nel flusso di lavoro fotografico interpreti in modo diverso i numeri rappresentativi dei valori di colore RGB.
Abbiamo anche stabilito che, se la nostra priorità e quella di garantire fedeltà dei risultati cromatici, bisognerà intervenire sui valori RGB. Essi dovranno essere “tradotti” in funzione della periferica a cui verranno inviati, con un’operazione che prende il nome di conversione colore.
Puntualizzato che i calcoli necessari a questa sorta di “traduzione” vengono svolti da appositi software, il problema sembrerebbe risolvibile in modo pressoché automatico.
Così in effetti potrebbe essere qualora il nostro flusso di lavoro procedesse sempre da una periferica con ristrette capacità cromatiche verso una con capacità cromatiche più ampie.
Rifacendoci al grafico ciò accade quando il flusso di lavoro passa dalla periferica il cui spazio colore è “A” ad una periferica il cui spazio colore è “B”.
Ma cosa accade quando il flusso di lavoro procede nella direzione opposta, dalla periferica B alla periferica A? E’ abbastanza intuitivo che i colori appartenenti all’area evidenziata in rosso non potrebbero trovare corrispondenza nello spazio cromatico della periferica di destinazione. In parole povere, la nostra periferica di destinazione non sarà in grado di riprodurli.
Qual’è allora la soluzione? Non di certo calibrazione e profilazione! Per quanto fondamentali per una corretta implementazione della gestione del colore, calibrazione e profilazione non possono ampliare le capacità cromatiche delle nostre periferiche.
La soluzione o, meglio, le soluzioni si chiamano intenti di rendering.
Gli intenti di rendering
Premetto subito che neanche gli intenti di rendering sono in grado di spingere le nostre periferiche oltre i loro limiti cromatici. Essi rappresentano però un insostituibile aiuto nella gestione di quelli che vengono definiti “colori fuori gamma” eventualmente presenti nei nostri file. Sempre rifacendoci al nostro grafico, colori fuori gamma possono essere quelli compresi nello spicchio rosso, nel passaggio da B ad A,
Se per la conversione colore delle tinte presenti sia nello spazio di partenza che in quello di destinazione sono sufficienti calcoli relativamente banali, nel caso di tinte che non trovano corrispondenza diretta bisogna ricorrere ad algoritmi di approssimazione. Tali formule, gli intenti di rendering, per l’appunto, determineranno come una tinta debba essere modificata per poter essere riprodotta anche dalla periferica di destinazione.
Ebbene sì: ho usato la parola “modificata” e ciò sta a significare che le tinte riprodotte potrebbero essere diverse da quelle di partenza. Dobbiamo farcene una ragione. Un corretto uso degli intenti di rendering può permetterci di ridurre tali differenze e, soprattutto, può essere garanzia di risultati, se non fedeli, almeno piacevoli.
Preciso subito che esistono quattro diversi intenti di rendering: Percettivo (o Fotografico), Saturazione, Colorimetrico relativo, Colorimetrico assoluto ma quelli che trovano applicazione in fotografia sono solo il Percettivo o Fotografico ed il Colorimetrico Relativo. Analizziamone le differenze per capire quando preferire l’uno e quando l’altro. A grandi linee possiamo anticipare che l’intento di rendering colorimetrico relativo dà prevalenza alla corrispondenza dei colori, mentre il percettivo al rapporto fra i vari colori presenti nell’immagine.
L’intento di rendering colorimetrico relativo
Di seguito la definizione tratta da un help in linea di Adobe. “Confronta la luce più estrema dello spazio cromatico di origine con quella dello spazio di destinazione e converte tutti i colori di conseguenza. I colori fuori gamma vengono convertiti nel colore più prossimo riproducibile nello spazio cromatico di destinazione.”
Effettuando una conversione con il rendering colorimetrico, i colori presenti nel gamut di partenza che rientrano anche in quello di destinazione NON vengono modificati. Quelli che invece non trovano riproducibilità vengono desaturati fino a rientrarvi. Può però accadere che diversi colori, dopo la rimappatura, trovino corrispondenza in un’unica tinta dello spazio di destinazione. In questa situazione il numero totale dei colori dell’immagine si riduce notevolmente. Soprattutto, però, è l’aspetto che può risultare poco piacevole, con sfumature che vengono trasformate in “tinte piatte”.
Semplificando possiamo dire che l’intento di rendering colorimetrico relativo è adatto quando sono pochi i colori dello spazio di origine che non trovano corrispondenza nello spazio di destinazione.
L’intento di rendering Percettivo o Fotografico
Sempre dalla definizione Adobe: “Mantiene le relazioni visive tra i colori in modo che siano percepiti come naturali dall’occhio umano, anche se i valori effettivi dei colori cambiano.”
L’occhio umano è più sensibile alle sfumature – o rapporti fra i colori – che non alla precisione matematica di una tinta. Ecco perché, diversamente dal precedente, l’intento di rendering percettivo (il nome non è casuale!) più che l’esattezza di una tinta preserva, o se preferite modifica proporzionalmente, le relazioni fra tutti i colori coinvolti nella conversione. Non si limita infatti a modificare solo i colori che non trovano corrispondenza, bensì modifica TUTTE le tinte dello spazio di origine.
L’intento di rendering percettivo risulta quindi più adatto quando sono molte le tinte dello spazio sorgente che non trovano corrispondenza in quello di destinazione.
Tutto chiaro, almeno in linea teorica, ma come scegliere nella pratica l’intento di rendering più adatto? Photoshop ci mette a disposizione una apposita funzione, che vi descrivo in questo articolo.